Difficile riuscire a immaginare infatti di continuare ad allattare stando tante ore fuori casa, tra spostamenti, nidi, nonni, babysitter. Più facile smettere, no? E forse è così, per alcuni aspetti è più facile smettere.
Allattare e lavorare? Si può!
Riprendo le attività del blog pubblicando un mio articolo uscito sullo scorso numero dell’Espresso.
Per crescere un figlio ci vuole un intero villaggio. Antica saggezza africana. Che da noi si è persa ormai da molti decenni, lasciando i figli sulle spalle – quando va bene – di una famiglia ridotta all’osso di una mamma e un papà. Difficile reggere una situazione così, specie quando il ‘villaggio’ non solo non dà una mano, ma sembra proprio remare contro le esigenze delle famiglie, soprattutto nei primi mesi e anni di vita dei figli. Mesi e anni in cui la gestione dei bambini pesa inevitabilmente in maniera più gravosa sulla madre. Che alla fine, esasperata, decide di sacrificare qualcosa. Spesso il lavoro: sono ancora tantissime in Italia le donne che lasciano il lavoro dopo la nascita di un figlio. Talvolta – quando si ha la fortuna di non essere costrette a lasciare il lavoro – a essere sacrificato è un aspetto dell’accudimento del figlio che si pensa sia incompatibile con il rientro al lavoro: l’allattamento.
Però continuare ad allattare quando si torna a lavoro non solo è possibile, ma può costituire anche un valido aiuto per affrontare la separazione madre-bambino, che è sempre un momento delicato per entrambi, vista la forte simbiosi in cui vivono nei primi mesi. Questa la tesi contenuta in “Allattare e lavorare si può!”, scritto da Giorgia Cozza e pubblicato dalla Leche League Italia, un’associazione che ha come obiettivo proprio quello di sostenere le mamme che desiderano allattare.
Dunque, allattare e lavorare si può. Come? Innanzitutto, consiglia Giorgia Cozza, sfruttando tutte le opportunità garantite dalle leggi italiane, dall’astensione obbligatoria a quella facoltativa, dai permessi giornalieri per l’allattamento alla richiesta di part-time, telelavoro e altre forme di flessibilità lavorativa (che però implicano il consenso, e il buon senso, del datore di lavoro).
In secondo luogo, sfatando i luoghi comuni: “Il latte ormai è acqua, non gli serve più”, “Tanto se rientri al lavoro il latte va via”, “Ma perché devi fare tutta questa fatica, il latte artificiale è uguale!” e via di questo passo. E allora una buona informazione è la prima alleata delle donne che intendono proseguire nell’allattamento anche dopo il rientro al lavoro. Innanzitutto val la pena ribadire che il latte materno e i suoi sostituti artificiali non sono affatto equivalenti quanto a valore nutrizionale e capacità di creare difese immunitarie nel bambino. In secondo luogo, se il bimbo è già grandicello e ha già iniziato a mangiare i cibi solidi, la produzione di latte si sarà già adeguata – sia in termini quantitativi che qualitativi – alle nuove esigenze, e il bambino potrà attaccarsi al seno prima che la madre esca di casa e al suo rientro, senza che questo comporti la “scomparsa” del latte. Se invece il bambino è ancora piccolo e il suo pasto principale è ancora rappresentato dal latte, la soluzione è quella di tirarlo per conservarlo in modo che chi si occupa di lui – i nonni, una babysitter, un nido (anche se non sono molti quelli che accettano il latte materno) – possa offrirlo al bimbo durante l’assenza della madre. Che, al suo ritorno, avrà modo di recuperare il tempo perduto attaccando il bambino al seno.
Certo, tutto questo comporta anche un po’ di fatica e soprattutto una certa capacità di organizzazione. Ma quello che più conta, in realtà, è il sostegno che le donne che desiderano continuare ad allattare trovano innanzitutto all’interno della propria famiglia, e poi anche nell’ambiente di lavoro. Ambiente invece tropo spesso ostile, in cui la donna che usufruisce dei permessi per l’allattamento è vista come una “privilegiata”. Un modello di organizzazione del lavoro modellato da e per gli uomini. Ma che in realtà comincia a stare stretto anche a loro.
Io ho avuto due figli. Uno quando ero una felice assegnista di ricerca in Italia, il che signifca praticamente disoccupata, e che ho potuto quindi allattare fino a un anno di età. Il secondo, l'ho avuto da single, con un primo figlio di cui occuparmi e con l'obbligo di riprendere il lavoro alla fine del congedo di maternità (in Francia tre mesi tra prima e dopo il parto). Ho dovuto smettere di allattare Raphaël, il mio secondo, quando aveva tre mesi e mezzo.
Mi sono molto colpevolizzata, soprattutto per aver fatto una differenza tra i due bambini. Mi sembrava di aver fatto un torto a Raphaël. In realtà Raphaël ha dormito molto meglio di suo fratello Leo a partire dai quattro mesi, è stato più autonomo dalla mamma, il che mi ha permesso di gestire la relazione con suo padre, con il quale non abitavo, molto meglio: anche un papà può dare un biberon e sussurrare parole dolci per fare addormentare il bambino…Dal punto di vista della salute poi, Raphaël ha avuto una prima infanzia molto più sana di suo fratello, fortuna ovviamente, e poi questi sono aneddoti personali che non dicono nulla su cosa sia meglio fare.
Quel che però ho capito dalla mia esperienza è che è importante ovviamente trovare il modo di lasciare la possibilità alle madri che vogliono allattare di farlo, ma è anche importante non colpevolizzare quelle che non ce la fanno ad allattare perché hanno un lavoro che non lo consente (per esempio, un lavoro in cui si viaggia molto, o si è esposti a sostanze potenzialmente tossiche, o, mettiamo, un lavoro da sommelier in cui bisogna ricominciare a bere vino!) facendo loro pensare che sia una grave mancanza per i bambini.
In alcuni paesi, come in Francia, l'allattamento forse va incoraggiato perché è una pratica alimentare poco diffusa che si scontra soprattutto con norme sociali e stili della femminilità (la donna deve essere bella e seducente dieci minuti dopo aver partorito!) che sono difficili da combattere. Ma in Italia mi sembra che il modello della "mamma totale" che allatta a oltranza, sta attaccata ai figli, si inquieta per uno starnuto, sia uno stereotipo anche troppo invadente che a volte stride con il senso della propria femminilità di molte madri che, pur adorando i loro figli, pur rifiutando il modello unico maschile sul lavoro, vogliono esprimere il loro essere donne in un modo che vada al di là della maternità.
Insomma, ci sono molti stili dell'essere donna, alcuni imposti dal modello di lavoro maschile, altri imposti dall'autorità delle madri, delle nonne, e della tradizione. Ci sono molti modi di amare ed essere vicini ai figli che possono passare per espressioni del proprio rapporto, anche fisico, con essi, diverse. Infine, non siamo più nella tribù familiare, ma sempre più spesso non siamo nemmeno nel triangolo mamma/papà/bébé: i figli possono essere tanti, le famiglie ricomposte, i genitori single, i fratelli e le sorelle in circolazione, e tutti quanti hanno nuovi diritti e doveri quando nasce un nuovo bambino. Per un fratello o una sorella maggiore, per esempio, lo spettacolo della mamma che allatta il piccino fino a un anno di età, può essere un trauma importante.
Allattare non dev'essere un privilegio ma nemmeno una schiavitù. Credo che la cosa più importante per una donna che ha figli sia riuscire a rimanere una donna su tutti i fronti, lavoro, amore, famiglia, un mosaico difficile da mettere insieme al quale non aggiungere ulteriori sensi di colpa.
"è importante ovviamente trovare il modo di lasciare la possibilità alle madri che vogliono allattare di farlo, ma è anche importante non colpevolizzare quelle che non ce la fanno ad allattare perché hanno un lavoro che non lo consente "
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