di CINZIA SCUTO, dal Rasoio di Occam, (30 novembre 2018)
Contrapporre i diritti umani e civili a quelli sociali e politici – e con essi anche i movimenti di emancipazione che lottano per questi diritti – è un’operazione sbagliata sul piano teorico e pericolosa su quello politico. Per una certa sinistra l’espressione “diritti umani” rappresenta una sorta di spauracchio: come se a soffrire della loro violazione non fossero in prima battuta gli oppressi e gli sfruttati.
Non mi è francamente del tutto chiaro il motivo per il quale l’articolo autodefinito “polemico” di Cini e Bertuzzi, che ha come obiettivo tutta una serie di posizioni e tesi non riconducibili al mio libro, tiri in ballo invece, in apertura, proprio il mio “Non c’è fede che tenga” (Feltrinelli, 2018) come occasione della polemica stessa. Che l’obiettivo delle critiche di Cini e Bertuzzi non sia il mio libro – e con esso le mie tesi – lo dichiarano gli stessi autori in apertura del loro articolo, definendo il mio testo “una disamina critica ben fondata e, per molti aspetti, condivisibile sull’adozione di approcci multiculturalisti in società multietniche” e soprattutto laddove dichiarano che “il libro spesso acquisisce una vita propria e, con essa, anche il contenuto originario si rende indipendente, giungendo così a significare qualcosa di completamente diverso” (corsivo mio). È a questa “vita propria” e a questo “qualcosa di completamente diverso” che le critiche di Cini e Bertuzzi si rivolgono. Potrei quindi non sentirmi affatto coinvolta. E però: nel citare il mio testo come occasione della loro polemica, senza mai fare un solo riferimento ad un contenuto del libro stesso e senza mai esplicitare nel corso della loro trattazione che quello di cui stanno parlando non si trova nel mio libro, si induce il lettore a pensare il contrario, lasciandolo nella convinzione che, scava scava, dietro il mio libro ci siano proprio tutte le tesi e le posizioni sottoposte a critica da Cini e Bertuzzi. È questo il motivo che mi spinge a intervenire.
La prima parte della critica di Cini e Bertuzzi si rivolge alla concezione liberale classica dei diritti umani (o meglio: alla visione un po’ folkloristica e riduzionistica di questa concezione), rispetto alla quale il mio libro si propone come un’alternativa. E dunque la loro critica – se voleva essere anche una critica al mio libro – non coglie proprio il bersaglio. Vediamo nel dettaglio perché.
Cini e Bertuzzi concedono che “non tutti i valori o le idee sono uguali”, che la loro critica non si pone dal punto di vista di una teoria politica “’debole’ e ‘relativista’, imbevuta di ‘post-modernismo’” e che “c’è bisogno oggi di una rinnovata visione universalista”. Dove sta allora il problema? Che il “mio” universalismo, l’universalismo dei diritti, non sarebbe l’universalismo “giusto” che invece si rivelerà essere, alla fine dell’articolo, quello di classe. Insomma, quella di Cini e Bertuzzi sarebbe una critica “da sinistra”, che al fondo ripropone la vecchia contrapposizione fra diritti umani da un lato e diritti sociali e politici dall’altro e, in ultima analisi, fra struttura e sovrastruttura: una dicotomia che secondo me tanti danni ha portato alla sinistra e che è uno degli oggetti di critica nel mio libro.
Ma quali sarebbero le colpe inemendabili dell’universalismo dei diritti? Per Cini e Bertuzzi una delle premesse dell’approccio basato sui diritti umani sarebbe “la vecchia proposizione liberale secondo cui l’individuo è il centro di ogni ordine sociale e storico. O detto altrimenti, ogni società umana può essere concepita come la semplice sommatoria degli individui che la compongano”. Peccato che la seconda parte di questo periodo non sia affatto una conseguenza logica e necessaria della prima, come invece viene lasciato intendere. Ossia: mettere al centro l’individuo, partire dall’individuo come soggetto portatore di diritti non implica necessariamente concepire la società come la semplice sommatoria di individui così “negando o sminuendo l’insieme delle relazioni che strutturano e danno senso al vivere sociale”. Nella mia visione, per esempio, come spiego abbondantemente nel libro, mettere al centro l’individuo soggetto di diritti significa “farsi carico della responsabilità sociale di creare le condizioni affinché ciascuna individualità possa esprimersi nel modo più pieno, libero e consapevole possibile” (p. 95). È dunque la precondizione per un progetto solidale di emancipazione universale dell’umanità, ossia di ogni essere umano. Assumendo la prospettiva che io propongo non ne discende affatto, come vorrebbero Cini e Bertuzzi, “l’idea che il vettore di ogni trasformazione sia l’agente individuale”. Nel mio libro non c’è traccia di questa idea atomistica dell’individuo, mentre centrale è la piena consapevolezza che, nella sua finitezza, ciascun individuo non sarà mai in grado di mettersi da solo nelle condizioni di godere a pieno dei diritti. Nella mia prospettiva, l’individuo (universale, non l’individuo-io) è il fine, non il mezzo. E, affinché i tanto bistrattati diritti umani siano davvero garantiti, è indispensabile una struttura sociale molto coesa, corpi intermedi – partiti, sindacati – che facciano la loro parte e uno Stato che metta i suoi cittadini nelle condizioni – culturali e materiali – di vedersi davvero garantiti quei diritti. Altro che “sommatoria di individui”!
A me pare che i diritti umani – per una certa sinistra – siano una specie di spauracchio: basta nominarli e si teme che dietro ci sia il capitalismo brutto sporco e cattivo. Mentre basterebbe affrontare le questioni con laicità e senza pregiudizi ideologici per rendersi conto che dietro i diritti umani, se presi sul serio, c’è la giustizia sociale, la redistribuzione della ricchezza, l’equità, l’uguaglianza, senza le quali rimangono mere petizioni di principio formali.
La contrapposizione fra individuo da una parte e soggetti collettivi dall’altra è completamente sterile. Dove sta scritto, per esempio, che partire dall’individuo e dai diritti umani significherebbe ignorare “l’emergere di vari e differenti movimenti collettivi, la cui azione è stata propugnatrice di emancipazione radicale. I movimenti operai e studenteschi degli anni Sessanta, le lotte di liberazione degli Afro-Americani negli Stati Uniti e quelle della donna nel continente europeo, le mobilitazioni di liberazione coloniale dell’Africa mediterranea e sub-sahariana dagli anni Cinquanta”? Certamente non nel mio libro. Tutti questi movimenti collettivi per cosa lottavano, se non per migliorare la condizione di vita dei singoli individui che componevano quelle collettività? Anzi, di più: lottavano per migliorare le condizioni di vita di tutti gli individui, anche di coloro che non appartenevano a quelle collettività. La lotta dei neri d’America come quella delle donne è una lotta universale e di emancipazione per tutti, non solo per i neri e per le donne. Dove starebbe in questo la distanza fra questi movimenti e i diritti umani?
Cini e Bertuzzi fanno poi l’elogio del movimento socialista, un “movimento concreto e reale che ha coraggiosamente messo al centro del dibattito pubblico l’emancipazione sociale e politica di gruppi oppressi e sfruttati. Per quanto relativamente vario a seconda delle latitudini geografiche e delle specificità storico-culturali in cui si è presentato, questo movimento politico deve essere considerato universale perché, a differenza dell’universalismo dei diritti umani, è sorto spontaneamente dalle lotte degli oppressi e degli sfruttati e si è diffuso globalmente attraverso la loro solidarietà” (corsivo mio). E quello dei diritti umani da cosa sarebbe nato? I movimenti che rivendicano libertà di espressione, di religione, i diritti delle donne e dei gay in che senso non sarebbero nati “spontaneamente”? Chi ci sarebbe dietro le donne iraniane che stanno rivendicando la libertà di non indossare il velo? O dietro i blogger atei bengalesi uccisi a colpi di machete? O dietro le donne della comunità musulmana indiana che stanno chiedendo la messa al bando del talaq – la formula per la quale il marito può ripudiare la moglie nell’arco di qualche secondo? Forse Soros? E soprattutto: ma perché continuare a riproporre la stantìa contrapposizione fra diritti umani da un lato e diritti sociali e politici dall’altro? Cos’è che li renderebbe incompatibili o addirittura alternativi? I primi a soffrire della violazione dei diritti umani sono sempre i più sfruttati e oppressi, a partire dalle donne. E a me pare che i diritti siano indivisibili.
Non c’è alcun dubbio che a sinistra manchi il “noi collettivo”. Ma – e forse qui c’è una differenza sostanziale fra me e i miei critici – il noi collettivo per me non è un fine in sé ma lo strumento di emancipazione degli individui. Se non è questo, se si trasforma nel fine in sé – come molto spesso, troppo spesso, è accaduto ai soggetti collettivi nella storia – molto laicamente dico: no, grazie.
E poi, un conto è ricordare “la rilevanza storica della dimensione collettiva (non solo quella di classe, ma anche quella subculturale e, in certi periodi e contesti, addirittura quella religiosa)” (corsivo mio): e chi la nega? Un altro conto è però far derivare da questa rilevanza storica un valore normativo. In altri termini: ricordare la rilevanza storica di alcune dimensioni collettive non può tradursi ipso facto in una loro ipostatizzazione, facendone dei totem intoccabili. La loro funzione nella storia può essere progressista o reazionaria, e sul piano etico-politico è questo quello che conta.
Oltre a confondere il piano normativo con quello storico, Cini e Bertuzzi lo confondono anche con quello ontologico. Francamente non so a chi si riferiscano quando scrivono che “postulare la priorità ontologica dell’unità individuale significa negare il dispiegarsi dei processi storici alla base della nostra società” (corsivo mio): certamente non a me. Il mio è infatti un discorso squisitamente normativo e del rifiuto di ogni essenzialismo ne ho fatto una bandiera. Per cui non postulo ontologicamente un bel nulla. Semmai postulo la priorità etica e normativa dell’individuo soggetto di diritti. Il che significa che una tale priorità non è ovviamente scritta da nessuna parte: ontologicamente non siamo particolarmente significativi, né come individui, né come specie. Siamo un accidente dell’evoluzione. Postulare un principio etico a fondamento di un ragionamento non significa farne un totem metafisico, ma significa sceglierlo come proprio principio normativo. E io penso che la scelta etica originaria, quella su cui poi ciascuno di noi fonda la propria azione anche politica, sia non ulteriormente giustificabile e, soprattutto, non possa essere fondata in un ordine diverso da quello normativo, del dover essere. Distinguere l’essere dal dover essere e non far discendere il secondo dal primo mi pare una minima regola di igiene del pensiero.
Altro argomento critico di Cini e Bertuzzi che, se rivolto anche a me, manca completamente il bersaglio, è quello secondo il quale i sostenitori dei diritti umani si concentrerebbero sulle comunità religiose “non autoctone”. Anche qui – come quasi a ogni riga del loro articolo – mi viene da chiedere: ma di chi stanno parlando? Certamente non di me, che nel libro non faccio sconti a nessuno, autoctoni o meno. Il mio è un discorso etico-politico che si rivolge all’intera comunità politica nella quale vivo, senza distinzioni legate a un più o meno lungo pedigree di autoctonia. Una distinzione peraltro, quella fra autoctoni e non, del tutto discutibile: i turchi che vivono in Germania da ormai quattro decenni sono certamente molto più autoctoni di me che ci vivo da quattro anni.
L’equivoco di fondo che sta alla base della critica di Cini e Bertuzzi è quello di collocare la discussione nell’alternativa fra “sovranisti” e “globalisti”, inserendomi – suppongo – fra i secondi. Il problema è che queste due categorie sono normativamente vuote e possono essere riempite dei contenuti più disparati. A me pare che siano proprio Cini e Bertuzzi ad assumere le “false premesse” della “falsa alternativa” fra globalisti e sovranisti. Una polemica questa che mi appassiona a tal punto da aver citato questi termini nel mio libro addirittura… zero volte!
Non poteva mancare, poi, la cara vecchia accusa di paternalismo: “Porre al centro del dibattito pubblico la contestazione dei diritti umani negati all’individuo appartenente a una qualche comunità religiosa o culturale”, scrivono Cini e Bertuzzi, “costituisce una forma odiosa di intervento statuale sulla vita delle persone dal vecchio sapore paternalista”. E invece le imposizioni dei capi delle comunità religiose o culturali cosa sono? Accettabili pacche sulle spalle di vecchi saggi? Garantire a ciascun individuo, a prescindere da qualunque sia la sua comunità di provenienza, i diritti umani fondamentali sarebbe “una forma odiosa di intervento statuale sulla vita delle persone”? Di nuovo: la critica di Cini e Bertuzzi non colpisce nel segno, almeno per quel che riguarda le mie tesi, perché io non vedo la società come una sommatoria di comunità monolitiche accatastate l’una affianco all’altra nelle quali lo Stato può o no mettere becco, ma come un’unica comunità politica nella quale ciascuno (individuo) porta il proprio contributo anche (anche, ma non solo) alla luce delle proprie diverse e complesse appartenenze e in cui lo Stato non è arbitro fra comunità ma garante dei diritti di ciascuno. Questa visione può ovviamente non piacere, quello che invece è scorretto è attribuirmene una costruita su misura per poi criticarla.
Non c’è dubbio che nel mio libro mi concentri molto sulle religioni: d’altro canto è un libro sulla laicità. C’è chi pensa che non valga la pena occuparsi tanto di religioni e che i “veri” problemi siano altri. Una posizione legittima, che io penso però sottovaluti pericolosamente la capacità degli elementi cosiddetti sovrastrutturali – culturali, ideologici, filosofici, religiosi – di incidere profondamente sul tessuto sociale e sulla struttura politica di una società.
C’è infine nell’articolo di Cini e Bertuzzi la solita, un po’ noiosa a dir la verità, critica “postcolonialista”, secondo la quale i diritti umani sarebbero roba occidentale per di più elaborata da “individui maschi, bianchi, borghesi, proprietari”, e tanto basterebbe per rifiutarli. “Le società in cui i diritti umani hanno avuto origine o nelle quali tali diritti si professano oggi a livello costituzionale”, scrivono Cini e Bertuzzi, “sono considerate moralmente superiori rispetto a tutte le altre forme di organizzazione umana”: ma da chi? A me personalmente non importa nulla di costruire gerarchie fra le società, mi interessa il punto etico-politico: la libertà di espressione, la parità di genere, l’habeas corpus, il diritto a un giusto processo, la libertà di coscienza, la libertà di religione (inclusa la libertà dalla religione), il diritto a un’istruzione, il diritto a una abitazione dignitosa, al cibo e l’accesso all’acqua sono princìpi condivisibili da un punto di vista progressista, sì o no? Vale la pena battersi affinché ovunque nel mondo siano rispettati, sì o no? Vale la pena sostenere tutti i movimenti che, in tutto il mondo, in tutte le “civiltà” si battono per essi, sì o no? Uno Stato che non prevede la pena di morte è più avanzato di uno che la prevede, sì o no? Ricordo, tanto per il gusto della precisione, che la pena di morte vige anche in alcuni Stati degli Stati Uniti d’America: quegli Stati Uniti che, secondo la narrazione assunta dai miei critici, io dovrei considerare la patria dei diritti umani. Beh, mi spiace deluderli ma io la violazione dei diritti umani sono capace di vederla dappertutto. Spesso invece i critici dei diritti umani mi pare siano un po’ strabici: quando la violazione dei diritti umani è “da noi”, pronti a salire sulle barricate, quando è “altrove” si rimane fermi come belle statuine.
Francamente non meriterebbe neanche un commento l’osservazione secondo la quale “i gruppi o le società che non abbracciano esplicitamente o costituzionalmente tali diritti sono considerate al di fuori dell’universo ‘umano’ e quindi ogni azione o intervento nei loro confronti sono da ritenersi moralmente legittimi o addirittura necessari”. Questa neanche troppo velata accusa di sostenere una qualche “guerra umanitaria” o “esportazione della democrazia” con “ogni mezzo” è da rispedire al mittente: in democrazia i mezzi non sono affatto secondari ed “esportare la democrazia” è una contraddizione in termini, se poi “con le armi” un totale nonsense. È un vero peccato che presunti critici dell’attuale ordine mondiale non si accorgano di aver assunto completamente la narrazione dominante. A Bush che dichiara di voler invadere l’Afghanistan per “portare la democrazia” non ci crede neanche lui stesso e utilizzare questa che è pura propaganda di guerra per infangare i sostenitori dei diritti umani è indecoroso. Qui non c’è nulla da esportare c’è, come scrivo espressamente nel libro, da “continuare a percorrere la strada dell’emancipazione insieme a quei pezzi di umanità che in tutto il mondo la stanno già percorrendo” (p. 149). Si chiama solidarietà internazionale, e dovrebbe essere una bandiera della sinistra.
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